I MONACI PROPONGONO
DUE VISITE GUIDATE AL MESE
(PRIMO SABATO E TERZA DOMENICA ORE 15.45)
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Visita guidata al nostro Monastero
1. La vasta piazza su cui prospetta la basilica e il monastero fu sistemata nel 1967, con pavimento di piastrelle di porfido e lastre di antigonio, per munificenza della Cassa di risparmio delle province lombarde. Sotto l’atrio dell’edificio che fronteggia la basilica, sono murati gli stemmi offerti dalle città della lega, nella ricorrenza dell’ottavo centenario del giuramento e scolpiti nella varietà dei propri marmi locali. Nella facciata principale del monastero di sviluppo orizzontale, tra la semplicità delle finestre con cornici rinascimentali, spicca verticalmente il bel portale in doppio ordine, in pietra purtroppo corrosa dal tempo.
2. Il rinascimentale chiostro d’ingresso risale alla fine del secolo XV. Venti colonne su incorniciate basi prismatiche in pietra di Pratolongo, sorreggono le venti arcate (cinque per lato) di un quadrato che non è geometrico. Fregi in cotto ornano i muri esterni, ai quali si aggiunse posteriormente una decorazione barocca in affresco.
3. Lungo la parete orientale sono disposti avanzi archeologici tra i quali notiamo capitelli e frammenti preromanici del secolo IX, che crediamo avanzi della chiesetta preesistente alla fondazione del monastero; due semicapitelli romanici testimonianza della chiesa costruita da S. Alberto nell’XI secolo; costoloni e altri reperti gotici della parte perduta dalla chiesa del secolo XIV.(Sebbene i due chiostri abbiano una parete in comune e siano contigui, vi è però tra di essi il dislivello di un piano, e non hanno per questo comunicazioni dirette. I visitatori accedono al chiostro superiore passando per la basilica).
4. la basilica porta i segni dei secoli in cui si è formata e ridimensionata. La scalinata d’accesso fu fatta nel 1644e rifatta nel 1913. A destra di chi sale, dietro la cancellata si vedono i ruderi di un muro che segna la linea su cui si alzava l’originale facciata gotica, più interamente i locale sotterraneo, il basamento di un pilastro e avanzi di muro romanico.
La facciata attuale è opera dell’architetto G. Bovara di Lecco, eseguita tra il 1828 e il 1832, le pietre del portale centrale e del pronao sono delle cave di Pratolongo.
Due lapidi vi furono murate il secolo scorso.
La prima nella ricorrenza del settimo centenario del giuramento di Pontida, a cura dell’accademia storica-archeologica di Milano. L’altra nella ricorrenza del settimo centenario della battaglia di Legnano, a cura dei rappresentanti delle associazioni cattoliche delle ventiquattro città collegate. In un angolo a destra un più modesto marmo, mancante di data e di qualsiasi riferimento cronologico, ricorda il pontidese dottor Luigi Secomandi, morto nel dicembre 1908, che tanto lavorò per il ritorno dei monaci a Pontida.
5. Le bussole d’entrata furono fatte nel 1949, con querce che i pontidesi tagliarono nei loro boschi dieci anni prima, per ricordare una predicazione missionaria, e sicure sfidano i secoli. Entrare nella basilica è come varcare le soglie della storia, le volte, i costoloni e gli archi a sesto acuto, i poderosi pilastri a fasci in pietra viva con cornici e basi sagomate, ci riportano in pieno medioevo. Iniziatasi la costruzione sulla fine del secolo XIII, era condotta a termine verso il 1310 dall’architetto Giovanni da Menaggio. Divisa in tre navate aveva originariamente sei campate gotiche, e a queste se ne aggiunsero due rinascimentali verso il 1500, cioè quelle del presbiterio e del coro. In epoca barocca la chiesa fu dotata di belli altari in marmo, e purtroppo si cercò anche di imbarocchire in qualche modo le strutture, arrivando al punto di stuccare e lisciare le pietre dei pilastri, tinteggiandoli in giallo per simulare il marmo. Nel 1873 sotto la direzione del professore Bettinelli, si raschiarono gli stucchi e si ripicchiarono le pietre. Nel 1914 si demolirono le volte rinascimentali delle campate del presbiterio e del coro, per sostituirle con volte a sesto acuto come nelle campane gotiche.
La basilica è lunga m. 52, larga m. 19. i pilastri sono alti m. 8,60 e hanno un perimetro di m. 4,60, e alla base di m. 6,60. il pavimento in marmo bianco delle Apuane fu posto nel 1943.
6. Nell’abside benedice il Cristo, che gli allievi della scuola d’arte sacra Beato Angelico di Milano tassellarono dalla primavera all’autunno del 1944. Sotto nella fascia al centro con la Madre di Dio, ai lati inginocchiati i committenti, e poi i dodici apostoli con vari simboli distintivi. Ciascun apostolo ha un cartiglio, sul quale è scritto un articolo del Credo, che è di sicura origine apostolica, anche se è solo tradizione che gli apostoli ne abbiano dettati i singoli articoli. L’arte musiva nelle chiese, anche se universalmente diffusa, fu sempre considerata propriamente bizantina, quindi anche il moderno “Pantocrator” di Pontida è indicato con le sigle bizantine del nome di Gesù Cristo IC. XC.
L’altar maggiore in marmo nero con intarsi policromi, fu eseguito dai fratelli Gelpi nel 1707. Originariamente sotto la mensa c’era un sarcofago pure di marmo nero, che fu levato via nel 1911, per far posto all’urna d’argento, che accoglie le reliquie dei santi Alberto e Vito fondatori del monastero. L’urna fu eseguita nel 1693 dall’orefice Giovanni Navarrino. Nella porticina del tabernacolo Luigi Guerinoni nel 1955 riprodusse in sbalzo il Buon Pastore che avanza coi simboli eucaristici. Il pavimento de presbiterio in rosso orobico, fu posto nel 1945.
Il coro fu intagliato nel 1540, ma spostato varie volte ha patito manomissioni.
Dello stesso tempo i portali e le porte gemelle, delle quali una mette in sagrestia e l’altra chiude il reliquiario, ricco di reliquie di santi, tra le quali insigne è il radio del braccio di S. Giacomo M. Apostolo. Le trifore prospicienti il presbiterio, sono parte della riforma del 1914, ad opera dell’architetto Fornoni, dietro a queste il pregevole organo. Costruito prima nell’abside da Felice Bossi nel 1850, fu trasportato dietro una trifora nel 1914, poi ampliato e diviso in due corpi dietro le due trifore della ditta Balbiani nel 1943, ebbe le due facciate e nuova consolle dalla ditta Rufatti di Padova nel 1952.
7. nella navata sinistra è l’unica cappella terminale che ha conservato le strutture gotiche-lombarde, e al gotico si richiama il moderno altare in pietra dedicato a S. Benedetto, e il trittico dipinto da Pasquale Fringuelli nel 1913.
Sul fianco della navata sinistra in corrispondenza alle varie campate, sono tre cappelle d’architettura rinascimentale, edificate dopo il 1500, vanno escluse dalla pianta gotica della chiesa originaria.
8. La prima cappella verso il presbiterio, la terza dall’entrata, è dedicata alla madonna del Rosario.
Ha un altare barocco in marmo del 1767. La madonna in candido marmo fu eseguita a Venezia tra il 1731-1737, mentre posteriori sono il S. Domenico e la S. Rosa da Lima che le sono ai lati. Originariamente la madonna era collocata nella prima cappella presso l’entrata, e fu qui trasportata nel 1940, quando vi fu solennemente incoronata il 6 ottobre per decreto del capitolo Vaticano.
9. La cappella di mezzo è dedicata ai morti. L’altare in marmo nero è del 1648, la pala d’altare eseguita dal bergamasco Giacomo Dolfin nel 1668, copia mediocremente una celebre “Deposizione”. “Il ritorno del figliol prodigo” e “la resurrezione di Lazzaro” delle lunette furono affrescate da Mario Donizetti nell’estate del 1960.
10. Ultima la cappella di S. Giuseppe. L’altare marmoreo è del 1720, della bottega dei fratelli Manni.
La cappellina del battistero fu restaurata nel 1944, la vasca è protetta da un coperchio a sbalzo, sormontata da una sfera di onice.
11. Le pareti della navata destra sono in parte occupate da due grandi tele secentesche, restaurate nel 1967 dal pittore A. Bagnini. La prima raffigura “La regina Teoperga davanti a S. Benedetto”. Le eseguì nel 1685 Simone Calvi, nome fino a ieri sconosciuto, ed al quale si possono attribuire altre opere del genere e dell’epoca sparse in chiese bergamasche.
A metà della navata troviamo un bell’altare in marmo con intarsi policromi, e bianco paliotto con dolorosa pietà, eretto nel 1679 a ringraziamento per la cessazione della peste. Nella nicchia il Crocifisso in legno, a grandezza naturale, è attribuito ad Andrea Fantoni.
12. chiude la navata destra una cappella terminale originariamente gotica, ma che fu ridimensionata nel 1700, per costruirvi sopra il campanile, e quindi ci presenta un altare barocco di marmi intarsiati, dedicato “Benedico et sociis”, ma che ha preso il nome di S. Mauro. L’affresco raffigurante la madonna e i santi benedettini è firmato e datato “Giulio Quaglia anno 1713”. Dietro questo altare si apre l’accesso al campanile, e qui si vedono pochi avanzi di affreschi, che ornavano l’originale cappella trecentesca.
13. Dalla navata destra si accede alla sagrestia. La precede un ambulacro di buone proporzioni sul quale prospetta il rinascimentale portale in pietra e marmo. Dal portale aperto si ammira un bel gioco di prospettive in affresco. Siamo di nuovo nel rinascimento. Il concetto della redenzione domina tutta l’opera. In alto l’Eterno Padre, ai lati sopra le finestre lo Spirito Santo e l’annunciazione, nella lunetta il Cristo morto, nel centro l’adorazione dei pastori, nelle finte nicchie S. Benedetto e S. Giustina a sinistra, S. Sebastiano e S. Caterina a destra. Nella volta in diciotto medaglioni, due angioli, il precursore, gli apostoli con S. Paolo e gli evangelisti, e poi tutta una svariatissima decorazione. Non conosciamo documenti che facciano il nome dell’autore, e la critica odierna si orienta sulla bottega di Marinoni. Di un secolo dopo sono gli armadi decorati con sei altorilievi di buona fattura.
5. Il chiostro superiore è della stessa ampiezza dell’inferiore, anch’esso con venti arcate e venti pilastri, che sono però alquanto più slanciati, e gli donano particolare leggerezza. Esternamente i pilastri si prolungano in lesene per tutto il piano superiore, e vanno ad incontrare la trabeazione, frazionando le pareti in riquadri di pietra, entro i quali si aprono le finestre. Dei marmi sottolineano le cornici e il giro degli archi. Tra i nomi dei vari architetti che si fanno, il più probabile è quelli di Pietro Isabello, per il tempo siamo vicini al 1510. Come in sacrestia la stessa bottega del Marinoni si è occupata di affrescare le lunette del chiostro. In ciascuna un medaglione, con la figura di un papa proveniente dall’ordine monastico. Nelle lunette d’angolo che sono alquanto più larghe, ai lati dei medaglioni sono raffigurati dei monaci, con appresso il simbolo della dignità a cui rinunciarono per entrare in monastero.
Con l’abitudine che oggi abbiamo fatto ai moderni acquedotti siamo facili a considerare i pozzi semplici originali ornamenti dei chiostri, e non pensiamo che in realtà essi erano nei secoli passati elemento primo ed indispensabile di vita. Il fatto che quel di Pontida non è situato perfettamente nel centro, testimonia che fu scavato prima che si costruisse il chiostro attuale. È profondo m. 22.
16. Sul lato orientale del chiostro è la rinascimentale facciata della sala capitolare, tutta in pietra, con ampio portale fiancheggiato da due eleganti bifore. Nella lunetta sopra la porta è affrescato S. Benedetto tra i santi Mauro e Placido e con la leggenda “Memor esto congregationis tuae” (ricordati della tua famiglia). Nella regola che S. Benedetto regge aperta in mano leggiamo “Neque dissimulet abbas peccata delinquentium, sed mox ut coeperint oriri radicitus ea ut praevalet amputet”. Ex Reg. cap. II (L’abate non dissimuli i peccati dei trasgressori, ma subito appena spuntano fuori, li recida decisamente alla radicie). Chiara allusione alla specifica funzione della sala capitolare, dove l’abate deve caritatevolmente correggere i difetti morali dei monaci.
17. Le strutture della sala e gli affreschi che l’adornano sono ancora cinquecenteschi. Sopra il seggio abbaziale abbiamo l’Addolorata col Cristo morto, e con ai lati S. Giovanni e S. Benedetto, S. Maria Maddalena e S. Scolastica. Nel centro della volta domina il Cristo risorto, circondato da monocroma mandorla di cherubini. Sopra la fascia dell’ornato delle quattro pareti sono distribuiti i quattro evangelisti. La sala è anche il cimitero monastico, sotto gli avelli del pavimento, custodisce le ceneri dei monaci.
(chi desidera ricordare le ammonizioni latine che si leggono nei cartigli degli affreschi, ne domandi la copia in stampa, presso la portineria del monastero.)
(HIC) JACET ALBERTI CORPUS PER SECLA BEATI
(PREFUI) IPSE LOCI FUNDATOR DENIQUE NOSTRI
(FERVIDUS) AC MITIS JOCUNDUS SIVE SUAVIS
(PRUDENS) ET CASTUS MISERATOR DIGNUS ET APTUS
Qui giace il corpo di Alberto per i secoli beato,
fondatore del nostro monastero, che egli stesso governò,
zelante e mite, giocondo e soave,
prudente e casto, misericordioso, buono e provvido.
MESTITIAM SECLO SED FECIT GAUDIA CELO
QUO PARITER JUNCTI MEREAMUR SCANDERE CUNCTI
OBIIT ANNO DÑICE INCARN. MXCV IND. IV
Il due settembre passò all’eternità
fece lutto la terra e gaudio il cielo,
dove parimenti speriamo di salire tutti insieme
morì l’anno dell’incarnazione del signore 1095 indizione IV.
(O)BFERTUR CHRISTO QUI SEMET CUNTULIT (ISTO)
Si offre a Cristo colui che a lui si consacrò
Dall’altra parte la preghiera di S. Giacomo e S. Benedetto per S. Alberto
ORANTES PETIMUS REQUIE PRO SPIRITUS (EIUS)
supplicanti preghiamo per il riposo dell’anima sua.
Nella seconda scultura (cm 66 x 53) è raffigurata una psicostasi o pesatura delle anime. Un cavaliere su un galoppante cavallo, con la destra regge le briglie e con la sinistra la bilancia, sui cui piatti sono due puttini. Quello di destra è pesante perchè ricco di buone opere e perciò alza esultante la mano; l’altro invece è mancante, piange e si terge gli occhi con la mano. Dietro il cavallo tre uomini nudi, ritti su un capitello, aspettano il loro turno di pesatura. Sopra si legge
MENSURA RECTA PENSAN(S OPERA HOMINUM CUNCTA)
CERNITE SERVANTES VESTRAS A CRIMINE ME(NTES)
Ecco colui che pesa con giusta misura tutte le opere degli uomoni, badate a preservare dal male le anime vostre
Essendo qui tre o quattro le parole mancanti, più difficile è ricercarle, e si prestano svariate soluzioni, noi abbiamo preferito la più semplice.
nella parte inferiore della stessa lapide leggiamo
FULGIDUS ALBERTUS DIVINO MUNERE FRETUS
ACCUBAT HAC URNA PRECISO MARMORE PULCRA
SPIRITUS IN CELO GAUDET DE MUNERE VERO
il fulgido Alberto, che fu da divino dono dotato,
giace in quest’urna, bella di scolpito marmo,
il suo spirito in cielo gode del dono vero.
L’iconografia della tomba di S. Alberto ci parla del giudizio di Dio e del valore delle opere buone. Nella scena principale domina Cristo Giudice che tende la mano ad Alberto, che gli vien presentato da tre potenti avvocati S. Michele che questo ufficio ha avuto in liturgia, e poi S. Benedetto padre dei monaci, e S. Giacomo patrono del monastero di Pontida. Nella “psicostasi” si presenta il trionfo delle opere buone. Esulta colui che è ricco di buone opere.
I critici sono discordi nell’identificazione del cavaliere di questa scena. In passato i più concordavano nel vedere anche in lui S. Michele, al quale la tradizione iconografica attribuisce le bilance pesatrici, ma poi è venuto il Porter, che opina per il terzo cavaliere dell’apocalisse, e ci sembra abbia ragione. Il fatto che S. Michele sia sicuramente raffigurato nella lapide maggiore, con le ali, come sempre si raffigurano gli angeli, ci sembra escludere che venga rappresentato nella minore in modo diverso, irriconoscibile, ed inusitato. Un angiolo a cavallo è un controsenso. Gli angioli si raffigurano con le ali appunto perché si attribuisce loro una piena autonomia nei movimenti. Un angiolo non ha mai bisogno di un cavallo. Un cavaliere non può arrivare dove arriva un volatile, mentre chi vola può arrivare con facilità dove arriva un cavaliere. Nell’apocalisse leggiamo “E quando aprì il terzo sigillo, udii il terzo vivente che diceva “vieni”. E vidi: ed ecco un cavallo nero, e il cavaliere aveva una bilancia in mano. E udii una voce in mezzo ai quattro viventi che diceva: un litro di frumento un denaro, e tre litri di orzo un denaro. E non sprecare l’olio e il vino”. Indubbiamente questo cavaliere rappresenta la carestia e la fame, ma è un pesatore, ed assai rigido, e un’interpretazione larga e libera può vedere in lui anche il pesatore delle anime.
Tutti i critici d’arte che hanno esaminato i resti della tomba di S. Alberto, anche se discordano nelle loro conclusioni, concordano nel datare l’opera al 1095 o subito dopo, e “così acquistano grandissima importanza, come i più antichi esempi di scultura realmente seria in Lombardia”.
Lo stile dell’opera è caratterizzato dalla finezza delle pieghe dei vestiti, che sono rappresentate con numerose linee parallele leggermente incise, e dall’inserimento di poche linee ardite e profonde. Gli occhi sono molto grandi e fissi, ma le palpebre sono eseguite con cura. Vi è soltanto un piccolo tentativo per quanto riguarda l’espressione facciale. La composizione è soddisfacente e le proporzioni non sono cattive. Sarebbe interessantissimo riuscire a stabilire da dove derivi l’ammirevole stile di questo scultore, ma in assenza di documenti è impossibile accerttarlo. Certi dettagli come il cavallo, il capitello sul quale stanno le anime nude, l’esecuzione dei piedi, e anche le pieghe dei drappeggi denunciano una stretta relazione con le opere di Guglielmo da Modena, ma dopo fra l’opera dello scultore di Pontida e Guglielmo vi sono anche molti punti di radicale differenze. Nella tomba di S. Alberto, come nel portale di Calvenzano forse più che ad una scuola siamo davanti ad un genio particolare. Uno scultore che lavorò solo per i cluniacensi della lombardia, e la sua arte dove mostra tendenze ultramontane, ha più relazioni con la scultura della Linguadoca che della Borgogna. Egli precede lievemente Guglielmo da Modena, ed eseguì la tomba di S. Alberto nel 1095 e poco dopo, prima quindi che Guglielmo imprendesse nel 1099 la sua opera nella cattedrale di Modena. L’archivolto di Calvenzano forse anteriore della tomba di S. Alberto può essere del 1095.
Queste due sculture ci rivelano una personalità artistica interessante ad alto livello. Prima di Guglielmo da Modena, e apparentemente del tutto indipendente da lui, un altro artista l’eguaglia nella narrazione forte e rapida, e lo supera nella delicatezza tecnica. Donde derivò la sua bell’arte questo ammirabile maestro? Non mancano strette analogie fra l’opera sua e quella di Guglielmo, Nicolò e la loro scuola, ma sono queste il risultato di un contatto diretto, o si spiegano con la teoria che entrambi derivano da prototipi comuni, come le sculture in avorio, e le primitive sculture italiane ora perdute? Altre analogie egualmente certe, connettono le opere del nostro artista con la scuola di Linguadoca, ma in quale direzione discese l’influenza? Di più rimangono da spiegare le sorprendenti e straordinarie peculiarità delle due sculture del maestro cluniacense. Nell’arte medievale non vi è altra rappresentazione della morte di Erode come quella di Calvenzano, ne altrove si trovano scene come quelle della tomba di S. Alberto. Nonostante il suo valore straordinario lo scultore cluniacense ha esercitato piccola influenza sull’arte del suo tempo.
La tomba di S. Alberto è un’opera d’arte e nell’opera d’arte c’è l’impronta di Dio. L’artista che scolpì la tomba, nella ricerca della perfezione dell’arte sua, era anch’egli un cercatore di Dio. Cercatore di Dio dovrebbe essere sempre il monaco, e cercatore di Dio fu sicuramente S. Alberto. L’artista cercatore di Dio, ha scolpito il monumento di Alberto cercatore di Dio, e ci dice che questa ricerca è un’arte, e che quest’arte è la storia, la grandezza e la gloria di S. Alberto.