L’origine del monastero di Pontida risale all’XI secolo, epoca fondamentale nella storia non solo della Chiesa ma di tutta la civiltà europea. È l’epoca del grande conflitto fra Papato e Impero, che va sotto il nome di “lotta per le investiture”. Da essa la Chiesa, per l’impulso energico di papa Gregorio VII, uscirà purificata e rinnovata, ma soprattutto libera dalle pesanti ingerenze dei signori laici, che ne avevano mondanizzato l’esistenza nel corso dei due secoli antecedenti. A sua volta l’impero, uscito sconfitto e ridimensionato dalla lunga lotta, cesserà di essere quella potenza assoluta e sacrale che era stato fino allora; ciò consentirà lo sviluppo dei moderni stati nazionali, il sorgere delle autonomie comunali, specialmente nell’Italia settentrionale, e una distinzione sempre più netta tra sfera religiosa e sfera politica.
In quel movimento di riforma ecclesiastica e civile, un ruolo fondamentale venne svolto dal monachesimo benedettino, nelle sue diverse forme, ma in modo del tutto particolare dai monaci cluniacensi, così chiamati dalla celebre Abbazia di Cluny, in Borgogna, fondata nel 909. Il monachesimo cluniacense si distingueva tra tutti i movimenti monastici per la sua scrupolosa fedeltà alla regola di S. Benedetto, per il maestoso decoro delle liturgie e per la sua fedeltà al papa, dalla cui autorità dipendeva direttamente, a differenza della maggior parte degli altri monasteri, spesso dipendenti dall’autorità dei sovrani e dal patrocinio delle nobili famiglie che li avevano fondati o beneficati. Anche i cluniacensi ricercavano l’intesa con l’autorità sovrana e ricevevano molte donazioni dai signori laici, senza però mai rinunciare alla loro indipendenza.
Tra in nobili che fecero donazioni all’Abbazia di Cluny, seguendo una tradizione allora assai diffusa nell’aristocrazia lombarda, ci fu anche Alberto da Prezzate, che l’8 novembre 1076 donò a Cluny tutti i suoi beni, posti tra l’Adda e il Brembo, nella valle di Pontida. Tra essi c’era anche una piccola chiesa, sita alle pendici del Canto Basso e dedicata a S. Maria e a S. Giacomo, accanto alla quale per volontà del donatore i monaci cluniacensi dovevano far sorgere un monastero e un ospizio per i pellegrini. Qualche anno dopo, Alberto, utilizzando le proprietà della cugina Teoperga, fondò anche il monastero di S. Egidio di Fontanella sul versante meridionale del medesimo Canto Basso. Successivamente si recò a Cluny dove rivestì l’abito monastico, tornò a Pontida , per incarico del grande abate Sant’Ugo, a svolgervi non solo l’ufficio di priore del monastero, ma anche quello di vicario dell’abate di Cluny per tutta la Lombardia.
Infatti l’ordine cluniacense, che al momento della fonazione di Pontida (avvenuta proprio nell’anno in cui Gregorio VII aveva scomunicato l’imperatore Enrico IV) contava in Lombardia solo tre piccoli priorati posti nelle città di Pavia, Lodi e Cremona, alla fine del’XI secolo, grazie al prestigio di Sant’Ugo e anche alla fervida attività di Sant’Alberto, contava molti piccoli monasteri sparsi in tutta la regione: dal Comasco al Bresciano, dalla Valtellina alla Bassa Milanese. Il 6 aprile 1095, poco prima di morire, Alberto ebbe la soddisfazione di vedere consacrata da un vescovo fedele al legittimo pontefice Urbano II la grande chiesa romanica da lui voluta e sorta al posto delle primitiva chiesetta. Alberto morì a Pontida il 2 settembre 1095 in fama di santità: lo dimostra la tomba che gli venne subito costruita e di cui ancora esistono due frammenti, che sono tra le più antiche testimonianze della scultura romanica in Lombardia. Una di esse rappresenta San Michele, patrono dei longobardi, che in veste di cavaliere pesa le anime. Nel secondo frammento lo stesso arcangelo, questa volta in sembianze angeliche, presenta a Cristo Giudice l’anima del priore Alberto, il quale a sua volta, in un altro lato della scultura, appare in abito monastico mentre presenta a Cristo il monastero da lui fondato. Lo accompagnano i suoi grandi protettori: l’apostolo San Giacomo e l’abate San Benedetto
Il Giuramento e la Lega Lombarda
Tra i successori di Sant’Alberto si distinse il priore Teudaldo da Vimercate, di nobile famiglia brianzola, per merito del quale i milanesi cominciarono a beneficare il monastero, ricostruendolo e ingrandendolo a loro spese nel 1118.
I beni del monastero si estendevano in quell’epoca della val Brembana al Lodigiano e arrivavano anche al di là dell’Adda, in territorio soggetto al comune di Milano. Perciò i milanesi concessero al monastero anche diversi sgravi fiscali ed esenzioni daziarie per il traffico commerciale che si svolgeva tra Pontida e Milano. Inizia in questo periodo un rapporto fra la grande città e il monastero bergamasco, che dura tuttora. Nel 1158 il priore di Pontida Alberto II funge da paciere tra il comune di Milano e il comune di Lodi. Il coinvolgimento del monastero in questo avvenimento politico dimostra il prestigio da esso ormai acquisito e spiega facilmente come mai, una decina d’anni dopo, esso sia stato scelto come luogo per la fondazione della prima Lega Lombarda.
La tradizione vuole infatti che il 7 aprile 1167 i rappresentanti dei comuni lombardi, stanchi delle prepotenze di Federico Barbarossa, imperatore scomunicato dal papa Alessandro III, messe da parte le loro antiche discordie, si siano trovati nel Monastero di Pontida giurandovi un patto di reciproco aiuto, divenuto famoso col nome di Giuramento di Pontida. Le precise circostanze di quell’avvenimento non ci sono note, anche perché di esso s’è impadronita la leggenda.
Decadenza tardo medievale
Cresciuto in potenza, il monastero di Pontida conobbe purtroppo anche le violenze delle lotte intestine che travagliarono l’Italia nel tardo medioevo. Si trovò così in mezzo alle guerre tra milanesi e bergamaschi, i primi ghibellini a causa del loro signore Bernabò Visconti, vicario imperiale dell’Italia settentrionale, i secondi invece guelfi, cioè fedeli al papa. Quando gli abitanti della val S. Martino, colpevoli dell’uccisione del figlio di Bernabò Visconti, Ambrogiolo, si asserragliarono nel monastero per tentarvi un’ultima disperata resistenza contro la spedizione punitiva subito dopo organizzata da Bernabò, il monastero ne fece le spese (18 settembre 1373). Espugnato col tradimento, fu messo a ferro e fuoco dall’armata viscontea, che danneggiò, senza riuscire a distruggerla, la possente basilica gotica, fatta costruire dal cardinale bergamasco Guglielmo de Longhi su progetto del maestro comacino Giovanni de Menaggio all’inizio del XIV secolo. I pochi monaci superstiti si rifugiarono a Bergamo, portando con sé le reliquie di Sant’Alberto: riposte sotto un altare della basilica di S. Maria Maggiore, esse vi rimasero fino al 1911, quando furono riportate a Pontida in una preziosa urna d’argento, che ancora oggi si può ammirare sotto l’altar maggiore della Basilica di S. Giacomo.
Bernabò fece asportare dalla chiesa di Pontida numerose reliquie di santi, per la cappella del castello visconteo di Pavia, e dal monastero ben tre carri di libri: ciò costituiva per l’epoca un patrimonio culturale di eccezionale livello. Vale la pena di ricordare qui alcuni dei manoscritti che certamente facevano parte di quella prestigiosa biblioteca, la cui dispersione fu causata dalla devastazione viscontea del 1373.
Già pochi anni dopo la fondazione del monastero, lo stesso Sant’Alberto inviava da Cluny, dove stava completando la sua formazione monastica, un codice liturgico, forse scritto di suo pugno (ma più probabilmente da lui soltanto acquisito) e da lui dedicato ai confratelli di Pontida con un’epigrafe in versi latini. Quel codice, destinato di per sé più alla sacrestia (dato il suo uso corale) che alla biblioteca, finì poi, forse in seguito alla suddetta dispersione, nel priorato cluniacense di S. Nicolò di Figina presso Villa Vergano (Como), a poca distanza da Pontida, e da li poi alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, dove ancora oggi è detto Lezionario di Figina.
Doveva esser parimenti destinato alla sacrestia un altro codice liturgico oggi alla Biblioteca Vaticana, ma inequivocabilmente appartenente alla biblioteca di Pontida, come è attestato dalla nota di proprietà del XIV secolo ( Iste liber est monasterii sancti iacobi de pontida ): si tratta del manoscritto Vat. Lat 82, detto anche Salterio di Pontida. È un salterio ambrosiano del IX secolo ed è di notevole importanza per la storia della liturgia milanese. La presenza di testi liturgici d’origine milanese nell’antica biblioteca di Pontida si spiega con gli scambi culturali tra Milano e Pontida nella prima metà del XII secolo. È infatti nota una lettera indirizzata dai monaci pontidesi al prevosto della canonica di S. Ambrogio di Milano, Martino Corbo, per chiedergli in prestito il testo del commento di Sant’Ambrogio al vangelo secondo Luca onde trascriverlo. Funzionava dunque a Pontida uno scriptorum, mediante il quale i monaci ampliavano la loro biblioteca. Sempre a quel periodo è logico far risalire la venuta da Milano a Pontida di un altro codice vaticano, questa volta di carattere canonistico, cioè il più antico manoscritto della Collectio Canonum di Sant’Anselmo da Lucca, pervenuto a Pontida forse grazie a Landolfo da Baggio, nipote del santo e provosto della canonica di S. Ambrogio prima di Martino Corbo.
La funesta vicenda del 1373, oltre a determinare la fine della primitiva biblioteca di Pontida, segna anche l’inizio della decadenza di quello che fu il più florido priorato della Lombardia cluniacense. Dopo la distruzione di Bernabò Visconti il monastero agonizzò per oltre un secolo: la crisi era aggravata dalla difficile situazione generale della vita monastica, sulla quale si era abbattuto il flagello della commenda. I monasteri erano infatti affidati (commendati) dal papa all’amministrazione di prelati estranei alla comunità monastica per risollevarne le finanze quasi ovunque dissestate. Questo rimedio, che doveva esser provvisorio e straordinario, finì per generalizzarsi e trasformarsi in un abuso: i commendatari dissipavano a proprio vantaggio le rendite dei monasteri loro affidati, impoverendone ulteriormente le comunità.
Il rinascimento pontidese
Per reagire contro gli abusi della commenda sorse a Padova nel 1409 la Congregazione di S. Giustina, grazie alla quale molti monasteri antichi vennero strappati al regime commendatario e interamente riformati, rimpiazzando i pochi monaci superstiti con nuovi monaci debitamente preparati. Protetta dalla repubblica di Venezia e favorita dai papi, la Congregazione di S. Giustina di Padova ebbe subito un grande sviluppo (tra l’altro, nel 1504 le fu aggregato anche il Monastero di Montecassino, culla dell’Ordine Benedettino, e da quel momento la Congregazione mutò il suo nome in quello di Benedettina Cassinese, che conserva tuttora).
Per il generoso interessamento del commendatario card. Marco Barbo e col benestare della Serenissima Repubblica di S. Marco, che aveva esteso fino all’Adda il suo dominio, anche il priorato cluniacense di Pontida, ormai ridotto agli sgoccioli, fu aggregato da Innocenzo VIII alla Congregazione di S. Giustina di Padova (1491).Si sciolse così l’antico legame con Cluny e da quel momento incominciò una vita nuova per il piccolo monastero bergamasco. Gli edifici ridotti ad un cumulo di macerie, vennero ricostruiti all’inizio del XVI secolo e il monastero assunse quell’elegante aspetto rinascimentale che ancor oggi lo caratterizza, soprattutto nei due bellissimi chiostri.
Posto sul confine fra Repubblica di Venezia e Stato di Milano, Pontida restava pur sempre un piccolo monastero di provincia, tagliato fuori dalle grandi correnti culturali, che pure si facevano sentire all’interno della sua Congragazione. Ne beneficiavano però solo quei monasteri che si trovavano vicino all’università (Padova, Bologna, Pavia ) o erano in rapporto con le corti signorili ( Parma, Ferrara, Mantova). Così non lasciò praticamente traccia il passaggio, verso la metà del XVI secolo, di un abate come il dottissimo umanista Isidoro da Chiari, morto vescovo di Foligno nel 1555. Infatti egli passò la maggior parte del periodo in cui fu abate di Pontida al Concilio di Trento, dove insieme ad altri due abati rappresentava la Congregazione Cassinese.
A Pontida vivevano normalmente solo pochi monaci, tutti sudditi veneziani che si trovavano perciò lontani dalla capitale del loro dominio e in nessun rapporto coll’ambiente culturale milanese che restava loro simultaneamente vicino ma estraneo, per ragioni di confine. Bisognava attendere il XVIII secolo perché a Pontida si costituisca una biblioteca degna di un monastero benedettino per la presenza, a capo della piccola comunità, di abati insigni per la loro cultura e membri a pieno titolo di quella che allora si faceva chiamare Repubblica delle lettere.
È il caso di Don Alberto Mazzoleni da Caprino Bergamasco (1695-1760) che, nel 1740, mentre ricopriva l’ufficio di priore claustrale, impiantò nello stesso monastero una tipografia per potervi stampare il suo imponente catalogo della collezione numismatica Pisani-Correr da lui studiata antecedentemente, mentre soggiornava nei monasteri di Venezia e di Padova. Quei quattro stupendi volumi, finemente incisi, formano ancor oggi uno dei più preziosi possessi della biblioteca pontidese, a causa delle dicitura del frontespizio che li dice stampati In monasterio Benedictino-Cassinate S. Jacobi Pontidae Agri Bergomatis Apud Joannem Santinum Sumptibus Societatis anno MDCCXL. Fu proprio questa inusitata dicitura a richiamare su quei libri l’attenzione dell’allora delegato apostolico ad Istambul, mons. Angelo Giuseppe Roncalli, il quale li rinvenne durante l’ultima guerra su una bancarella in riva al Bosforo e , dopo averne fatto acquisto per la sua personale biblioteca, da Parigi, dove nel frattempo era stato trasferito come nunzio, li inviò in dono a Pontida nel 1949. Senza quel generoso intervento l’attuale biblioteca del monastero non avrebbe nemmeno più una copia di quella sua unica, ma pur prestigiosa pubblicazione. Infatti l’antica biblioteca monastica di Pontida, in seguito alla soppressione napoleonica del monastero, nel 1798 venne venduta a peso di carta, mentre il ricchissimo archivio venne trasferito all’archivio di Stato di Milano.
Dalla soppressione napoleonica ai nostri giorni
Nel 1798 la Repubblica Cisalpina costituita da Napoleone, decretò la soppressione di Pontida, insieme a quella di altri monasteri e conventi lombardi. Era una convinzione dei rivoluzionari che gli ordini religiosi avessero fatto ormai il loro tempo. Ma un secolo dopo qualcuno la pensava diversamente: tant’è vero che furono fatti numerosi passi da parte della popolazione locale e delle autorità religiose e civili perché i Benedettini cassinesi riprendessero possesso dell’antico loro monastero, ridotto a deplorevoli condizioni da un secolo d’incuria, e lo facessero rifiorire.
Quel desiderio generale ebbe il suo compimento soltanto il 14 gennaio 1910, allorchè dall’Abbazia di S. Paolo in Roma tre monaci della congragazione Benedettina Cassinese vennero a Pontida per riaccendervi la fiamma dell’antico ideale del divino servizio nella preghiera e nel lavoro. I rifondatori del monastero si trovarono ben presto a lottare con molteplici problemi d’ordine finanziario, per cui ben difficilmente poterono pensare a costruire una vera e propria biblioteca. Era necessario per prima cosa ricomprare tutto lo stabile del monastero, lottizzato e ridotto ad abitazioni private, e procedere ai restauri più urgenti: il compimento di questa prima fase di recupero si ebbe soltanto all’inizio degli anni Trenta. Parallelamente si cominciò una sistematica raccolta di libri di vero interesse culturale, con la preferenza per quelli di carattere storico-ecclesiastico. La collezione si andò arricchendo soprattutto per alcune cospicue donazioni, fra le quali merita d’esser ricordata quella degli eredi dell’architetto Carlo Amati (1776-1852), esponente di grande spicco nel panorama del neoclassicismo lombardo. Alla generosità dei donatori corrispose ampiamente l’impegno dei monaci pontidesi che, dopo aver protetto e conservato nel loro monastero durante la seconda guerra mondiale i tesori della Biblioteca Nazionale di Brera, adibirono quei medesimi locali, dotati di una scaffalatura donata dal ministero della Pubblica Istruzione, a sede della nuova biblioteca, che fu inaugurata dal card. Angelo Giuseppe Roncalli, patriarca di Venezia, il 6 settembre 1953.
Il monumento
La chiesa di Pontida, consacrata nel 1095 e capolavoro del romanico cluniacense, oggi non esiste più, perché interamente sotituita, all’inizio del secolo XIV, dalla mirabile basilica gotica fatta costruire dal card. Guglielmo de Longhi, la quale –come ha dimostrato la celebre studiosa dell’arte medievale Angiola Maria Romanini – fu un autentico prototipo dell’architettura gotica lombarda, che influì anche sulla costruzione del Duomo di Milano, iniziata 70 anni dopo.
La facciata della basilica (1832) è invece frutto d’un tardivo restauro neoclassico, ad opera di Giuseppe Bovara, che pose fine, dopo quasi cinque secoli, ai guasti operati da Bernabò Visconti nel 1373. Se l’odierna basilica gotica di Pontida non conserva nella sua struttura architettonica alcun diretto ricordo della antica chiesa cluniacense, tuttavia essa conserva nel suo interno il ricordo più venerando della primitiva chiesa: cioè i frammenti scultorei del sarcofago di Sant’Alberto, suo fondatore. Nell’età barocca e roccocò la chiesa fu impreziosita di una serie di altari marmorei fra i quali spiccano quello di S. Mauro, che ha come pala un pregevole affresco di Giulio Quaglio (1713), e quello del crocefisso, che racchiude una scultura lignea di pregevole fattura comunemente ritenuta opera giovanile di Andrea Fantoni (1679). Accanto alla chiesa sorge la stupenda sacrestia rinascimentale, d’ispirazione bramantesca, interamente decorata da un ignoto affrescatore bergamasco, che all’inizio del XVI secolo dipinse anche le lunette del chiostro superiore con medaglioni raffiguranti i papi appartenenti all’ordine Benedettino. Sul chiostro superiore, capolavoro dell’architettura rinascimentale lombardo-veneta, s’affaccia anche la sala capitolare, anche’essa affrescata nel medesimo periodo.